Il tema dell’urgenza è strettamente legato a quello delle priorità.
Troppo spesso però, a mio avviso, urgenza e priorità vengono percepiti come sinonimi: se una certa questione è urgente, va da sé che dovro dargli priorità rispetto ad altre questioni meno urgenti. Non sempre è così.
Nel valutare l’urgenza di una richiesta che ci viene fatta dovremmo anzitutto chiederci “per chi” è urgente e “perché” è urgente. L’etimologia stessa del termine “urgente” (participio presente del verbo ùrgere) ci indica che dietro una questione “urgente” c’è qualcuno che ùrge, ossia che incalza, spinge, sollecita.
A volte, per rendere le nostre questioni più urgenti, attribuiamo l’urgenza (dunque la spinta) a persone al di sopra di noi, che magari non stanno urgendo affatto, o che forse potrebbero urgere se la questione non venisse risolta.
Ecco dunque che in una questione di lavoro, l’urgenza non dovrebbe mai essere valutata in funzione del singolo individuo che urge, ma dell’azienda nel suo complesso. Questo perché individui particolarmente “urgenti” rischiano di compromettere le priorità del gruppo.
Ci sono posti in cui, per forza di cose, la priorità non può essere determinata dal grado d’urgenza. Pensiamo, ad esempio, ai pronto soccorsi ospedalieri. Una madre che si presenta al triage perché suo figlio si è ferito un dito con un foglio di carta, avrà tutte le ragioni per chiedere che sia medicato e assistito, ed è certo che “urgerà” affinché ciò sia fatto nel minor tempo possibile. Tuttavia, nello stesso momento, si presenta un signore che, a causa di un incidente sul lavoro, ha subito l’amputazione di un dito e che necessita parimenti di essere soccorso. La mamma strepita e incalza l’infermiere poiché molto preoccupata che il figlio possa contrarre il tetano dalla ferita. Il signore invece, con molta pazienza, rimane seduto sulla barella con la mano fasciata in attesa di essere visitato.
In un caso come questo, se dovessimo dare priorità ai casi più urgenti, faremmo passare la madre e lasceremmo il signore a dissanguarsi sulla barella. Per fortuna, la pratica ospedaliera del triage prevede l’assegnazione di codici di priorità (rosso, giallo o verde) in base alla gravità delle condizioni cliniche del paziente. E questo, si badi bene, al di là dell’urgenza. La madre dunque, potrà sdraiarsi a terra e urlare come una disperata, ma se ha il codice verde suo figlio verrà visitato dopo il signore con il dito amputato e il codice rosso.
Sarebbe auspicabile poter implementare la best practice del triage anche nella nostra vita professionale, anche se magari non abbiamo a che fare con braccia amputate e gente in fin di vita. In questo modo non solo otterremmo risultati migliori a livello di sistema, ma daremmo a tutti la stessa dignità ed equità.