Questo post sarà il primo di una rubrica che uscirà tutti i martedì dal titolo (provvisorio) “Umarell meets Sustainability“.
Ho pensato che scrivere di sostenibilità per gli umarell fosse una cosa interessante e a suo modo utile.
Già… ma chi sono gli umarell?
Danilo Masotti che meglio di altri ha inquadrato questo fenomeno sociale scrivendone due libri e dedicandogli un blog (umarells.wordpress.com) li definisce così:
Umarells indica individui in pensione e non solo che hanno ben poco da fare tutto il giorno e giustificano la loro esistenza importunando – o facilitando… – le esistenze altrui, così, tanto per sentirsi utili, forse.
(Danilo Masotti)
Gli umarell sono dunque tendenzialmente anziani ma non solo. Molti di noi infatti (superata la soglia dei trent’anni) hanno cominciato pian piano ad “umarellizzarsi“, a vivere cioè in un proprio mondo fatto di certezze granitiche che si sono accumulate negli anni con l’esperienza e gli errori commessi in passato e che hanno dato vita a quella che potremmo definire a tutti gli effetti una propria weltanschauung, una zona di comfort dalla quale difficilmente si è disposti ad uscire.
In un contesto come quello attuale fatto di cambiamenti epocali e repentini l’umarell che è in noi (reazionario per natura) non ci aiuta a cogliere ed accogliere le nuove istanze di un mondo globalizzato e sempre più interconnesso, rifiutando qualsiasi forma di novità nell’approccio alla vita di tutti i giorni.
Ci troviamo oggi di fronte ad una generazione di umarell che può influire nell’immediato e in modo più incisivo sulle scelte di politica economica, ambientale e sociale ma che è cresciuta con dei paradigmi che vanno riconsiderati alla luce di quello che nel tempo hanno prodotto. Tutto questo, ovviamente, mentre una nuova generazione di giovani cittadini si sta formando e sta crescendo consapevole del fatto che un presente sostenibile sia l’unica garanzia per un futuro migliore.
Si rende dunque necessaria un’azione di formazione di questo segmento della popolazione (quello degli umarell appunto) al fine di ottenere in breve tempo dei risultati tangibili e non lasciare che molti dei fenomeni legati allo sviluppo sostenibile che stanno nascendo in questi anni possano avere degli effetti solo nel lungo termine.
Ciò detto… siete pronti per partire?
Nell’episodio di questa settimana il nostro umarell sta andando a prendere l’acqua dal boccione che si trova in fondo al corridoio del suo ufficio. Con grande sorpresa nota che i bicchieri di plastica non ci sono più. Un po’ infastidito chiede alla segretaria che fine abbiano fatto. Gli viene risposto che la sua azienda ha scelto di eliminare i bicchieri di plastica ed ha dotato tutti i dipendenti di una piccola borraccia da riempire e riutilizzare ogni volta.
L’umarell si innervosisce. I bicchieri di plastica erano così comodi, impilati a centinaia sul tavolino e poi gettati nel secchio dopo averli riempiti una sola volta. Ma al di la della comodità il bicchiere usa e getta era la scelta igienicamente migliore. Si ricorda ancora il nostro umarell di quando in mensa c’erano i bicchieri di vetro e di quando ci aveva trovato un segno di rossetto sul bordo: da allora (e senza pensarci su più di tanto) sempre e solo bicchieri di plastica.
D’altra parte però l’umarell vede che tutti hanno iniziato a bere dalla borraccia (” la water cup” come la chiamano qui) e che soprattutto il suo capo, motivato dal nuovo sistema di incentivi legati alla sostenibilità, ne incoraggia l’utilizzo. Non vedendo alternative plausibili dunque se ne fa dare una. La osserva con un certa diffidenza e sulle prime pensa all’enorme spreco di soldi per acquistare non so quante di queste “cose”.
Con il passare dei giorni però l’umarell comincia a riconsiderare la sua posizione sulla borraccia: è piccola si, ma è ben costruita, è in alluminio (dunque riciclabile, ma soprattutto facile da pulire e super-igienica), mantiene l’acqua fresca e gli evita di fare cento viaggi avanti e indietro ogni qualvolta ha sete. E inoltre (però questo diciamolo a voce bassa) gli evita di dover parlare tutte le volte con quelli che si piazzano davanti al boccione del tempo e dei risultati calcistici.
Dopo qualche mese il nostro umarell si è ormai abituato a consumare l’acqua dalla borraccia, ma stenta ancora a comprendere i benefici di una simile operazione che considera come una moda passeggera che presto tutti abbandoneranno.
Un giorno incrocia Luigi, il suo collega del piano di sotto, quello che si occupa di comunicazione, di ambiente e di varie altre cose. Gli pare la persona più adatta cui porre alcune domande: «Gigi ascolta» gli dice: «ma questa storia della borraccia secondo te durerà ancora a lungo?» .
Luigi (che in realtà è il sustainability manager dell’azienda) gli spiega allora che la scelta di non utilizzare bicchieri di plastica fa parte di una strategia più ampia di sostenibilità che l’azienda ha formulato ormai da qualche anno a questa parte. Gli racconta che essere sostenibili significa valutare gli impatti non soltanto economici, ma anche ambientali e sociali di un’azienda, che la stessa azienda è fatta di persone e che ognuno di noi nelle scelte che fa all’interno delle quattro mura del suo ufficio è in qualche modo responsabile di questi impatti.
L’umarell si interessa ai discorsi di Luigi e vuole saperne qualcosa di più. Accetta quindi l’invito del suo collega a prendere un caffè nel suo ufficio: «Un caffè sostenibile!» dice lui, scherzando. In realtà mentre sorseggiano la bevanda nelle tazzine di ceramica che Luigi si è portato da casa, l’umarell scopre che dietro a quel caffè c’è veramente una storia di sostenibilità, che Luigi lo ha comprato in un negozio che garantisce il controllo totale della filiera di produzione dal produttore al consumatore e che i profitti derivanti dalla vendita del prodotto sono equamente distribuiti non solo alla torrefazione o al distributore ma anche ai produttori che spesso vivono in condizioni disagiate e subiscono la pressione delle grandi imprese per produrre di più a meno con il risultato (inevitabile) di produrre un caffè peggiore. «Per inseguire la quantità abbiamo perso il piacere della qualità» afferma Luigi, che nel frattempo mostra al suo collega il QR code sulla confezione di caffè tramite il quale è possibile collegarsi ad un sito web che mostra la localizzazione della piantagione in cui il caffè è stato coltivato insieme ad alcuni video con le storie dei produttori. «Questa economia sempre più globalizzata ci ha fatto perdere il contatto con il prodotto. Ne percepiamo a malapena la distribuzione, sappiamo che arriva da qualche parte sugli scaffali dei supermercati e poi… poi guardiamo il prezzo e di li decidiamo se comprarlo o meno. Non ci poniamo il dubbio di capire che cosa è stato sacrificato per arrivare a consumare questo caffè.» e indicando la tazzina prosegue: «Ogni nostra azione di consumo ha degli effetti sul sistema economico, ambientale e sociale. Prendi ad esempio questa tazzina. Se avessimo utilizzato un bicchierino di plastica avremmo generato rifiuti difficilmente riciclabili che avrebbero contribuito a produrre questo».
Il dito di Luigi si sposta dalla tazzina al monitor del PC dove compare questa fotografia:
«Questa» spiega Luigi: «è una porzione di un’enorme discarica galleggiante di plastica al largo della costa pacifica degli Stati Uniti. Alcuni la chiamano “l’isola di plastica“, altri il “Pacific Thrash Vortex“, ma la sostanza è sempre la stessa: tonnellate di rifiuti non riciclati gettati in mare e portati alla deriva dalla corrente oceanica. Rifiuti globali che non hanno una cittadinanza. Appartengono a tutti e a nessuno. E proprio perché non appartengono a qualcuno in particolare che nessuno se ne prende cura finché non arrivano a lambire le nostre coste. Di situazioni del genere ce ne sono dovunque in giro per il mondo. E tutto parte da ciascuno di noi, da un piccolo insignificante bicchierino di plastica che ogni giorno decidiamo di utilizzare e gettare via. Ma il punto è un altro: si tratta veramente di una nostra decisione? O piuttosto di un riflesso incondizionato generato dall’inconsapevolezza di tutto quello che accade intorno a noi? Non è forse colpa di quel contatto con il prodotto che abbiamo perso? Ogni giorno siamo chiamati ad esprimere decine di preferenze: cosa mangiare, da chi fare benzina, a chi far gestire le nostre utenze telefoniche, da chi comprare un telefono o un bagnoschiuma. Alcuni economisti chiamano queste azioni “il voto con il portafoglio“. Ed è un voto vero, decisivo, consistente, che può permettere davvero di far cambiare le cose. Per quanto ancora potremmo sostenere un sistema che produce cose ma che sfrutta le persone e consuma le risorse naturali senza rigenerarle? Questo è il senso profondo della sostenibilità: una forma di cittadinanza attiva e consapevole che pretende che tutti, a tutti livelli siano responsabili della conservazione dei beni ambientali e di relazione e che di questa conservazione debbano renderne conto attraverso le azioni quotidiane.».
Dopo un attimo di silenzio la conversazione prosegue. I due colleghi si scambiano idee, opinioni e punti di vista, l’uno pessimista e convinto che le cose non potranno cambiare mentre l’altro invece molto fiducioso che la presa di coscienza (soprattutto da parte delle nuove generazioni) del problema ambientale e dell’esigenza di una nuova modalità di produzione e consumo di beni e servizi potrà dare una spinta verso un vero progresso.
L’umarell si congeda e se ne torna al suo cubicolo con un sacco di concetti che ancora faticano a trovare una sistemazione nella sua testa. Questa storia della sostenibilità dopotutto lo convince e forse un pochino più consapevole del valore delle sue azioni quotidiane lo è diventato. Quel che è certo è che la strada verso un reale cambiamento è ancora lunga e in salita. Ma da qualche parte bisognerà pur cominciare, no?!
Ciò detto adesso quella borraccia che campeggia sulla sua scrivania ha acquistato un senso. La consapevolezza di questo gesto, per quanto piccolo e insignificante, lo gratifica e lo fa sentire parte di qualcosa di più grande ed importante. Per la prima volta dopo molto tempo l’umarell non si sente solo e disarmato di fronte ad una realtà che non riesce ad interpretare. Con un sorrisetto furbo pensa che nei prossimi giorni ripasserà da Gigi. E stavolta non sarà per parlare del tempo e dei risultati calcistici.