È il momento di tornare a lavorare perché l’effetto grotta per cui siamo a casa e prendiamo lo stipendio ha i suoi pericoli.
(Beppe Sala – Sindaco di Milano. Fonte: Corriere della Sera)
Prima di gettare bile a sproposito, mi sento in dovere di dare un’altra chance al Sindaco di Milano (per il quale nutro un sincero rispetto) per permettergli di riformulare questa frase che, letta così, ha un sapore amaro.
Amaro perché riassume tutti i peggiori cliché retrogradi sullo smart working e su un certo modo di fare impresa che ci eravamo illusi per qualche istante di aver superato.
Penso che molti di noi (io sicuramente) hanno dato dimostrazione di quanto lo smart working, se gestito con flessibilità e correttezza da entrambe le parti, possa essere un’ottima modalità per ottenere un risultato spesso migliore a vantaggio dell’impresa e dei suoi collaboratori.
Questo, ovviamente, con le dovute eccezioni che non possono però essere utilizzate per additare come normale un comportamento deviante. Lo smart working non è per tutti e non è alla portata di tutti: obbligare una persona a fare smart working quando questa non può o non vuole farlo (perché richiede delle skill organizzative, tecniche e relazionali che non si è potuto – o non si è voluto – sviluppare) porta agli esiti infausti in cui talvolta ci si è imbattuti in questi mesi.
Un conto insomma è dire che lo smart working a pioggia su tutti i settori e su tutti i collaboratori è sbagliato (e questo, credo, fosse il pensiero di Sala per quanto male sia stato espresso o riportato) un altro invece è dire che lo si debba considerare esclusivamente come una misura temporanea e palliativa per non lasciare la gente senza far niente. Quest’ultimo è un pregiudizio che ferisce e danneggia molti di quelli che nello smart working ci hanno creduto ed hanno investito tempo e risorse per poter trarre il meglio da questa esperienza e dimostrarne l’efficacia non solo in caso di lockdown pandemico.
Favorire una visione negativa dello smartworking favorisce indirettamente i micromanager, i maniaci del controllo, quelli che chiamano i collaboratori “dipendenti” come se il lavoro fosse una droga e loro fossero i pusher. Asseconda in buona sostanza una visione dell’impresa del nuovo millennio organizzata come una fabbrica dell’800 attorno alla quale tutti devono fisicamente convergere per contribuire alla catena di montaggio di stampo tayloristico .
Prima di applaudire dunque ad una frase liberatoria che pare sancire la fine di un periodo buio della storia del nostro Paese pensiamoci bene. Valutiamo l’esperienza con dei numeri alla mano. Evitiamo generalizzazioni. E soprattutto, diamo una possibilità al progresso di cambiare in meglio la nostra quotidianità.